Archivio per marzo 2010

Il populismo dell’amore

«Ha vinto l’amore». C’è qualcosa di vero nell’imbarazzante acme populistico raggiunto da questa affermazione del premier all’indomani delle elezioni regionali, che hanno ancora una volta hanno confermato l’infatuazione che il popolo italiano prova per lui e per la sua coalizione. La frase è infatti un diamante perfetto di rassicurante approssimazione; una gemma di populismo lessicale e semantico. «Ha vinto l’amore» è la sintesi estrema del cuore più profondo della politica moderna: quel continuo massaggio dell’elettorato fatto di sorrisi con la schiuma alla bocca. Quell’arte narcotizzante che porta un solo messaggio: «Non preoccuparti di nulla. Vota per me e andrà tutto bene». E non può essere altrimenti, perché se c’è qualcosa che film, canzoni e tv ci hanno insegnato negli ultimi cento anni, è che alla fine i buoni la spuntano. Quindi ti conviene saltare subito dalla loro parte, prima che il copione finisca.

L’amore è il sentimento più mitizzato e populista in assoluto. Nessuno può dirsi contro l’amore. Eppure, aldilà degli sceneggiati e delle pagine profumate dei romanzi alla camomilla, l’amore fa male. Molto male. Perché acceca. Ti stritola in un universo di dolcezza. Ti lega saldamente ad una percezione, e poi ti può far affogare mentre la marea sale e tu continui a sorridere. Non solo i gesti più nobili e le più grandi imprese, ma anche i più efferati omicidi e le più turpi azioni sono comandate da quella cosa che chiamiamo «amore». Perché di fronte a questo idolo incontrastabile e incontrastato, tutto cede il passo e niente sembra avere più importanza. In questo senso, c’è del vero nelle parole di Berlusconi: questo è stato il voto dell’amore. Il voto è stato un atto d’amore. Irrazionale, avvolgente, pervasivo. Il premier, come al solito, l’ha solo capito prima.

La dimostrazione è davanti ai nostri occhi.  Il politico è diventato come l’amore prediletto. Non siamo interessati alla sua vera natura: lo scegliamo e basta. La donna che amiamo potrà pure essere egoista e sgarbata; l’uomo arrogante e violento. Non importa: l’amore è superiore a qualsiasi sopruso alla logica e al fisico. Alla stessa maniera, questa campagna elettorale ha dimostrato che non importa come sia il tuo politico. Come l’amato, non importa se è disonesto, bugiardo, sleale, violento, corrotto, volgare, se spende i tuoi soldi per i suoi comodi, se va a prostitute, se fa promesse impossibili da mantenere, se arriva tardi all’appuntamento (a cena o con le liste elettorali)… Non importa se qualcuno ci vuole avvisare: è un bugiardo, e anche se sappiamo che è vero, non importa comunque. A volte, non importa nemmeno se sia di destra o di sinistra. Non importa perché è lui il «bene», e chi a lui si oppone, il «male». E  tanto ci basta sapere per fare «la cosa giusta».

Se guardassimo alla campagna elettorale come termine assoluto di paragone delle elezioni appena trascorse, potremmo tranquillamente affermare che nessun elettore in Italia, tra domenica e lunedì, ha votato il suo candidato perché riteneva fosse la persona giusta per quel ruolo. La persona che avrebbe fatto le cose di cui la gente aveva bisogno. Nessuno perché nessun politico ha detto: «votatemi perché farò questo». L’unica cosa che è stata detta è stata: «Votatemi perché sono io». Col sempre utile corollario: «E se non sono io, è l’altro, il male». Alle urne ha vinto chi incarnava l’ideologia più solida (la Lega; il coniuge affidabile) o chi è riuscito a risvegliare i sentimenti più puri e violenti (gli amanti Grillo e Berlusconi). Giù chi ha tenuto i piedi in due staffe: nell’ideologia ma anche con qualche contenuto (Pd, Casini, Finiani). Ha vinto chi è riuscito a proporre all’elettore una coperta calda di menefreghismo; una carezza e la promessa che tutto sarebbe andato bene. Chi, tra gli elettori, non è riuscito a cadere in infatuazione, è rimasto a casa, a fare i conti con le proprie miserie e a invidiare, segretamente, chi un amore politico ce l’ha.

Ma una nazione di innamorati non è una nazione felice. É un Paese di squilibrati, nel senso più letterale del termine. Squilibrati perché hanno rinunciato al loro raziocinio per il privilegio di lamentarsi o di illudersi. Fino a che uno di loro, per delusione amoroso o rabbia da esclusione, non si trasformerà in uno squilibrato nel senso più comune del termine, e un’altra statuetta (o qualcosa di più pericoloso) volerà nell’aria. Allora ci fermeremo, per un attimo a riflettere. Ma sarà solo un attimo, prima di essere travolti di nuovo dalla rabbia e dall’amore, fino a che non saremo allegramente caduti nel precipizio verso cui ci stiamo dirigendo con un sorriso fra le labbra.

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